GRAZIE!
La parola è semplice, solare e non richiede neanche una risposta. Si può usare così, senza altre frasi di contorno. Dal latino “gratia” con i più svariati significati fra cui: favore, piacevolezza, gratuità e non per ultimo gratitudine e ringraziamento (gratus=grato).
Una parola comune che racchiude in sé quindi molti sentimenti e qualità positivi e oggi Seneca, oltre a fare gli Auguri a tutte le donne per l’otto marzo vuole dire grazie a tutte le operatrici che da sempre, anche in questo periodo non semplice, si dedicano alla cura degli altri, in un modo speciale solo come una donna sa fare!
Si perché il lavoro di Cura è Donna!
Ma cosa significa realmente ‘lavoro di cura’? E’ un lavoro che esiste già o che bisogna inventare? E’ una caratteristica, una competenza che qualche operatore possiede e qualcun’altro no? Come si insegna e come si impara questo particolare contenuto di lavoro? A quali risorse umane e strumentali si fa riferimento nella sua progettazione? Quali elementi oggettivi e valoriali sostengono nella fatica quotidiana di un lavoro che abbia in sè un elevato contenuto di cura? Quali sono i possibili indicatori, individuali e di gruppo, per valutare i risultati di un tipo di lavoro come quello di cura?
Le educatrici dei nidi, gli Operatori Socio Sanitari, gli infermieri, i medici, gli educatori di comunità, per citare alcune professioni, non definiscono volentieri la loro attività nei termini di un lavoro di cura, come se ciò fosse evocativo di una sorta di svalorizzazione delle loro specifiche competenze professionali.
Il lavoro di che produce cura, è imperniato nei gesti e nella necessità della quotidiana riproduzione e che si svolge prevalentemente nei servizi, ma anche in altri contesti produttivi destinati ‘alla persona’. E’ un lavoro che richiede un alto contenuto di relazione, destinato ad una persona e finalizzato al suo benessere complessivo; è un lavoro che necessita dell’interdipendenza dei soggetti in relazione e contemporaneamente, da parte di chi lo svolge, di conoscerne e valutarne i confini, evitando l’aiuto inutile.
E’ un lavoro che conosciamo in quanto incorporato in tutta quella serie di attività domestiche che le donne hanno storicamente compiuto per i loro familiari.
E’ un lavoro presente e incorporato in una serie di attività professionali più ampie e più precisamente definite, ad esempio, come lavoro sociale, educativo, intervento sanitario e di riabilitazione.
Chi svolge questo tipo di lavoro non solo affronta la necessità di dover tenere sotto controllo l’eccessiva esposizione alle emozioni e, contemporaneamente, continuare ‘a sentire’, ma è impegnato in una sorta di produzione sociale emozionale, cioè nella produzione di una modalità di relazione di cura legittimata socialmente e che sia non distante/non intima, non asettica/non coinvolgente, non estranea/non personale.
‘Lavoro di cura’ e ‘curare’ sono dunque termini evocativi di molteplici significati e di molteplici azioni.
Curare è, nell’immaginario collettivo, caratteristica del femminile, pur essendo il lavoro di cura svolto anche da uomini.
Le donne sono gli attori privilegiati dello scenario della cura: garantiscono cura gratuita nel loro tempo privato familiare; svolgono lavoro di cura nei servizi nel loro tempo pubblico retribuito; chiedono servizi di cura per i loro familiari.
Curare è, dunque, un lavoro nè banale nè facile, che non tutti sono in grado di svolgere, che forse non può durare un’intera vita lavorativa perchè consuma molto.
Buon 8 Marzo di cura!